FINE CURA MAI. Il mito del superamento del manicomio criminale

Se si prende una struttura carceraria obsoleta e violenta, la si chiude e si trasferiscono i detenuti in moduli abitativi di 20 posti, ristrutturati per l’occasione e dotati di tutti i comfort, non si stanno liberando questi uomini, né ridando loro la dignità e il diritto di decidere della loro esistenza.

Bisognerebbe avere l’onestà intellettuale di dire che questo processo “libera” semmai chi ha gestito e gestisce questi luoghi dal giudizio sociale che li addita come “secondini” o “aguzzini”, promuovendoli al ruolo di educatori, curatori, riabilitatori …

Questo è ciò che definiamo con enfasi “superamento dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario” e che si rivela la semplice deportazione da un luogo di cura/pena ad un altro di persone su cui esiste la presunzione tanto della loro colpevolezza, quanto della loro irresponsabilità personale e pericolosità sociale.

Invero da più parti si denuncia questa mistificazione. Tanto è evidente il fatto che la nuova normativa ha solo scalfito, in modo molto marginale, i processi giuridici attraverso cui le persone sono incriminate, prosciolte e rinchiuse . Ma nella maggior parte dei casi la critica non va oltre la mera denuncia delle Rems come nuovi Opg.

Invero non c’é da aspettarsi molto da chi per circa 30 anni non si è avveduto che i reparti psichiatrici negli ospedali civili, istituiti con la legge 180, non erano (e non sono) altro che mini-manicomi e che, ancora oggi, non sembra avvertire tutta la portata liberticida insita nell’istituto del TSO (Trattamento sanitario obbligatorio), istituito dalla stessa legge, così come nei servizi psichiatrici aperti 24 ore che, nei fatti, sostituiscono e riattualizzano il controllo totale dell’istituzione manicomiale sugli individui.

La coincidenza di vedute che sembra accomunare il movimento antipsichiatrico e quello delle “buone pratiche”, nel momento in cui diciamo “NO REMS”, svanisce non appena proviamo ad andare oltre e scopriamo che chi, fra gli operatori psichiatrici, non vuole le Rems, non riconosce in ogni caso piena responsabilità e consapevolezza al reo-folle, né gli riconosce il diritto alla difesa, ma ritiene che vada sollevato dalle sue “colpe” e “curato” attraverso la presa in carico da parte dei servizi di salute mentale.

Il “reato” scompare e con esso la soggettività, la responsabilità e le scelte della persona, per lasciare posto alla “malattia” e. soprattutto, alla “cura”.

Alla base di questo ragionamento c’é la convinzione che l’essere affidati alle “cure” di un CSM, sia cosa diversa, per chi vi è costretto, dall’essere rinchiuso dentro le Rems. L’affidamento obbligatorio ai Centri di Salute Mentale costituirebbe, secondo questa visione, una “cura” o un “prendersi cura”. L’internamento nelle Rems, invece, una “punizione” e un “abbandono”.

C’è un’identità di fondo fra queste due visioni, solo apparentemente contrapposte: l’idea che la persona non vada “giudicata” né “punita” per quello che ha fatto, ma vada “curata”. Gli operatori delle “buone pratiche” e quelli delle Rems non percepiscono la loro azione di limitazione della libertà personale e di scelta come punitiva, ma la vivono, in entrambi i casi, come “terapeutica” e interessata a ristabilire il ben-essere dell’internato/affidato.

In realtà nel mondo parallelo della carcerazione psichiatrica (che non ha caso chiamiamo “doppio binario”), la “pena” è la “cura” stessa.

A differenza della “pena”, che ha precisi contorni temporali, una fine certa e regole di garanzia a cui la persona può appellarsi, la “cura” si basa sul giudizio assoluto (e arbitrario) del tecnico e non ha una fine se non quella decretata dallo psichiatra.

Invero la nuova normativa decreta che nessuno possa essere sottoposto a misura di sicurezza detentiva per un periodo superiore alla pena prevista per il reato da cui si è stati prosciolti, mettendo fine (almeno sulla carta) ai cosiddetti ergastoli bianchi in OPG/Rems. Ma tale previsione non si applica alle misure di sicurezza non detentive, in ossequio a quell’orientamento culturale, tanto caro agli psichiatri democratici, che mira a sostituire l’internamento come forma prioritaria di punizione/cura/controllo del reo folle, con l’affidamento coatto alle “cure” territoriali.

Il risultato è che la persona può rimanere, a giudizio dei propri “curanti”, in regime di libertà vigilata indefinitamente, stante che con ciò non lo si intende “punire” di un reato (per cui la “pena” in uno stato di diritto deve essere certa), ma “curare” da una “malattia” che potrebbe, se non trattata, portarlo a commettere altri reati.

Il binario su cui si svolge la storia giudiziaria del reo-folle è un binario morto, perché mancante di un orizzonte temporale. Il fatto che in parte esso si svolga al di fuori di strutture carcerarie, non deve indurci a pensare che il trattamento riservato ai prosciolti per vizio di mente sia più equo e rispettoso dei diritti fondamentali dell’uomo che in passato.

In un recente incontro sul superamento dell’OPG ho avuto modo di confrontarmi con operatori dei servizi psichiatrici che segnalavano come alcuni degli internati affidati alle loro strutture comunitarie territoriali avessero chiesto, in senso inverso alla logica corrente, di rientrare in OPG. Questi mal sopportavano l’ingerenza educativa e costante degli operatori che imponevano loro ogni sorta di divieti e regole stringenti di convivenza e dicevano di preferire l’abbandono manicomiale perché, paradossalmente, si sentivano più liberi e rispettati dall’indifferenza attiva di chi li custodiva senza tentare di cambiarli.

La “cura” psichiatrica, aldilà degli strumenti e strategie che usa, ha come oggetto la libertà di essere, fare e pensare delle persone. Essere affidati alle “cure”, ed esserlo per legge oltre che per consuetudine e per delega sociale da parte di familiari e comunità sociali, significa perdere il controllo della propria esistenza e delle proprie scelte. Ciò, al di là delle buone intenzioni di chi “cura”, non può che essere avvertito da chi lo subisce come una forma di controllo, di violenza e di abuso, specie se allo stesso non viene garantito il diritto di rifiutare tali attenzioni.

Sembrerà paradossale ma il riconoscimento della responsabilità e della punibilità del folle (e quindi l’abolizione delle norme sul proscioglimento per vizio di mente), oggi è e resta l’unico modo per rispettarne i diritti fondamentali. Le violenze sistematiche dentro e fuori gli OPG, le Rems e i trattamenti psichiatrici sono solo epifenomeni di questa invalidazione di massa che la legge e la psichiatria fanno degli individui, misconoscendone la responsabilità e sostituendosi a loro nelle loro scelte di vita.

Potremmo cosi chiudere tutti i luoghi di reclusione psichiatrica e la reclusione rimarrebbe l’orizzonte di ogni paziente designato. La reclusione non sta nei luoghi in cui si viene rinchiusi , ma nel fatto che non ci si ritiene più, per legge, capaci di esprimere una libera volontà e di gestire la propria vita.

Giuseppe Bucalo

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