DISIMPARARE LA NORMALITA’

Una linea è stata tracciata fra se stesso e se stesso e fra se stesso e gli altri.
Si nega che questa linea sia stata tracciata. 
Non c’è nessuna linea.
Ma non provate ad attraversarla”.
                      R.D.Laing

Spesso si pensa alla questione psichiatrica come essenzialmente (e tragicamente) ad una questione sanitaria e/o di assistenza nei confronti di individui che si definiscono (a seconda della sensibilità, cultura, ruolo e convenienza) malati, disagiati, sofferenti e finanche esclusi.

Il dibattito verte sulle modalità, le strategie e le pratiche (buone e cattive) che occorre mettere in campo per garantire quello che viene definito “diritto alla cura” e/o comunque per rispondere ad una qualche oscura e devastante sofferenza di cui si ritiene sia affetto l’individuo.
In realtà a chiunque si sia cimentato nel confronto diretto (e senza pregiudizi) con le vicende, le storie e i vissuti che coinvolgono gli utenti involontari della psichiatria, appare chiaro che l’oggetto (e la posta in gioco) è essenzialmente un’altra e non ha niente a che vedere con la medicina, la psicologia o la cura di una qualsivoglia (esistente o non esistente) patologia.
La questione psichiatrica ha a che fare con la normalità molto più di quanto (si) interessi della follia.
La psichiatria, infatti, ha una delega forte e assoluta da parte della società nel presidiare i confini della norma e tracciare linee (reali e immaginarie) per circoscrivere, come in riserve, comportamenti ed esperienze che violino l’ordine mentale, familiare e sociale condiviso.
Le inquietanti somiglianze, il parallelismo e la sovrapponibilità delle pratiche psichiatriche con le pratiche di tortura, non si può spiegare (come si usa fare comunemente) come l’effetto degli errori e della poco sensibilità ed empatia di singoli operatori e/o servizi. In realtà la tortura e la cura psichiatrica perseguono finalità analoghe: quella di indurre la persona torturata/curata a fare abiura delle proprie idee.
La linea sottile che fa da spartiacque fra “cura psichiatrica” e “tortura” non riguarda tanto la natura di queste pratiche, quanto i sistemi di giustificazione che esse usano.
La metafora medica serve così alla psichiatria come sistema di mimetizzazione e mistificazione per giustificare (e legittimare) le sue pratiche di controllo e sanzione dei comportamenti dis/ordinati e delle personalità non/ordinarie.
Nel per/seguire tali comportamenti e modi di essere, la psichiatria crea (e impone) la normalità come realtà oggettiva e definisce la deviazione dalla norma come frutto di un processo patologico piuttosto che come scelta (più o meno libera) dell’individuo.Nella logica psichiatrica l’individuo è del tutto ir/responsabile delle sue azioni e lo psichiatra non risponde delle proprie.

Tale paradigma è fondamentale per garantire la piena libertà di azione alla psichiatria, attraverso la creazione di un ambito extra-giuridico dove i diritti e la libertà di scelta dell’individuo vengono sospesi, compressi e disattesi, lasciando il campo ad una “presa in carico” totale e totalizzante della sua esistenza.

Una volta che le idee, i sentimenti, i desideri o le visioni del mondo smettono di essere espressione viva (anche se non condivisibile o moralmente inaccettabile) di un individuo, per diventare “sintomi” di una malattia o di un processo patologico, allora anche tutte le azioni che mettiamo in campo per negarne il senso, impedire la libera espressione dei convincimenti o controllare i comportamenti di chi viene così etichettato, smettono di essere forme di violenza o atti di violazione della libertà di scelta e di espressione, per diventare atti “terapeutici” che non possono essere rifiutati.

L’azione di negazione e internamento così smette di essere vissuta (tranne che dalle sue vittime) come violenza, per assurgere a ruolo della più nobile delle attività umane: il prendersi cura dell’altro.

E’ chiaro che in questo contesto ogni tentativo di sottrarsi a questo abbraccio (spesso mortale) non può che essere vissuto come ir/ragionevole e prova esso stesso dell’urgenza di agire con ogni mezzo necessario per piegare ogni r/esistenza umana dell’im/paziente designato. Così come può apparire non ragionevole la presa di posizione di chi, come me, rivendica il diritto al “rifiuto delle cure” da parte degli utenti in/volontari dei servizi psichiatrici, non solo (e non tanto) in funzione della pericolosità e distruttività di tali pratiche, ma anche perché rivendica il rispetto della verità delle esperienze non ordinarie, l’illiceità di qualsiasi azioni di coazione o l’imposizione di qualsiasi modello di vita e di comportamento non condiviso.

Nel difendere (e istituire) la normalità, la psichiatria difende il nostro ordine mentale, familiare e sociale. Anche se crediamo di essere meri spettatori incompetenti, in realtà noi siamo i “mandanti” dell’orrore psichiatrico. Lo siamo stati e lo siamo tuttora, ogni volta che nel rivendicare il nostro diritto alla normalità, usiamo la psichiatria per negare, tacitare e risolvere i conflitti che possono nascere fra di noi.

Una persona, di fatti, finisce sotto cura psichiatrica in genere non perché (o necessariamente) abbia o accusi dei problemi: ma essenzialmente perché crea dei problemi.

Ciò non significa che chi subisce il giudizio psichiatrico sia ontologicamente nel giusto, ma solo che non sta dalla parte della ragione (cioè della realtà condivisa). Non importa quanto sia (o possa essere) inumana, distruttiva e orribile la normalità: importa solo che vi ci si attenga ognuno facendo la sua parte.

Giuseppe Bucalo

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